Moonlight, Primo capito-Kimara

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Kimara LoyLo
icon12  view post Posted on 2/1/2012, 21:49





*Full Moon*

“Percepisco il dolore che dalle tue labbra esce sotto forma di uno strumento scordato e stridulo. Taci. Ora non sento più niente. Ormai sono come una rosa congelata e intrappolata in una prigione di cristallo. Guardo i tuoi occhi. Gli occhi che un tempo mi scrutavano con dolcezza, che un tempo avevano solo il mio riflesso. Ora li odio, come odio te. Ti odio perché il mio amore nei tuoi confronti è talmente grande d’avermi fatto fare questo. Il tuo sangue tra le mie mani, sul mio vestito bianco. E io ti sto a guardare , senza provare nessun ribrezzo, senza versare alcuna lacrima. Traditore, nel tuo volto vedo solo lei. Cosa ti ho fatto io? Ti ho donato il mio cuore e guarda come hai ricambiato!. Guarda cosa HANNO fatto! Siete tutti colpevoli. I vostri cadaveri devono marcire nell’inferno in cui mi avete condotto, mangiati da vermi e ripudiati per il disgusto che provocate. Bruciate, nelle fiamme che voi stessi avete creato. Chi mi ha messo al mondo e mi ha ucciso mille e mille volte, chi si è preso gioco di me.... Bruciate!”

Un urlo dato dalla disperazione. Lo stesso martellante incubo. I miei capelli erano impregnati dal sudore che continuava a fuoriuscire incessantemente dai pori. La stanza era totalmente buia e la finestra spalancata. Mi venne un brivido e non sapevo se era per l’aria ch’entrava e faceva contatto con la mia pelle bagnata o per la paura. In quel sogno non ero io. O meglio , il corpo era il mio ma certe emozioni non mi appartenevano. Nessuna di quelle persone mi era nota. Il dolore che provavo in quell’incubo era così reale da preferire una lama nello stomaco. Scesi dal letto e mi diressi verso la finestra. Vedevo l’intera città di New York dal diciassettesimo piano dell’appartamento di mia zia. Mi ero ritrovata là dopo aver passato gli ultimi diciannove anni della mia vita rinchiusa nella cittadella in cui sono nata. Certo, i miei non erano molto entusiasti, ma a loro bastava che io non rovinassi il buon nome della famiglia. Perciò, inventando la scusa di frequentare un college importantissimo, gli allegri e impiccioni paesani colmavano la loro insopportabile curiosità. La verità era che non sapevo minimamente cosa fare della mia vita. Volevo solo allontanarmi da quel posto assurdo.
Appena arrivata in città, mia zia Elizabeth fu come una boccata d’aria. Anche lei era un po’ stressante a volte, ma almeno mi dava i miei spazi. Non aveva figli e ne ero contenta. Faceva la consulente finanziaria per imprenditori molto importanti, per cui guadagnava molto e poteva permettersi il lussuoso appartamento in cui mi trovavo. Malgrado la questione economica non fosse affatto un problema, decisi, dopo un po’, di andare a cercare un lavoro. Non mi andava di pesare tanto e, com’ era normale in una ragazza della mia età, il desiderio d’indipendenza si faceva sempre più forte.
Dalla grande finestra le tende svolazzavano. La brezza asciugò il mio corpo sudaticcio e il respiro ritornò regolare. Guardai in alto. Le stelle non erano visibili per le troppe luci presenti in città, ma riuscivo a vedere una grande luna piena. Un ‘enorme e terrificante luna piena. Un altro brivido scosse il mio corpo, stavolta più intenso o meglio dire strano.
Anche tu.
Mi voltai immediatamente, ma alle mie spalle non c’era nessuno. Eppure quella voce era cristallina, inquietante, familiare. Anch’io?. Che assurdità! Chiusi la finestra e serrai bene le tende, tappando la vista di quella fastidiosa luna. Meglio dormire, pensai, sempre se ci riesco.









1
*GibbousPhase*

“ Luna Blu”


Per il resto della notte fu l’unica cosa che riuscii a sognare. Per la prima volta dopo un anno il sognò cambiò. Erano attimi di quell’immagine che si ripetevano all’infinito: io in piedi che guardavo una luna blu. Probabilmente fu suggestione. Ma avevo poco tempo per pensare agli scherzi mentali. Avevo dormito pochissimo e sarei dovuta andare ad un colloquio di lavoro per un posto da barista in un locale situato nei pressi dell’ Hard Rock caffè di Manhattan. Non era molto lontano da lì e potevo benissimo raggiungerlo a piedi. Beh, il problema era che erano già le 8.30 del mattino e io mi trovavo ancora avvolta nelle coperte a guardare il soffitto. Ci vollero degli attimi perché prendessi coscienza del mio stato attuale.
Come un lampo mi precipitai a lavarmi i denti e a fare la doccia. Diedi un’occhiata all’orologio e realizzai che in bagno avevo impiegato solo 10 minuti, perciò corsi a vestirmi e il chè normalmente sarebbe stato complicato vista la mia ossessione per il “vestire bene”. Certo, “bene” secondo la mia concezione. Pazienza, avrei indossato gli stessi vestiti del giorno precedente: una gonna gotica, una maglietta leopardata, gli anfibi neri e la mia amata giacca di pelle nera. Senza nemmeno ricalcare i lineamenti degli occhi con un po’ di matita e senza neppure aver pensato lontanamente di fare colazione, uscii di casa alle 9 meno 10. In così poco tempo non sarei arrivata al locale, ma 10 minuti di ritardo non avrebbero fatto male a nessuno. Così speravo.
Tra il caos mattutino della città, arrivai infatti 20 minuti dopo l’orario prefissato.
Rispetto ai locali e negozi circostanti, il posto era piccolo e all’esterno insignificante con un’insegna di poco conto con su scritto “The Red Apple”. Entrai e mi ricredetti. All’interno era molto moderno:i tavoli sembravano usciti da una di quelle riviste di arredamento di ultima generazione. Inoltre notai subito che era provvisto anche di un piccolo palcoscenico con strumenti musicali.
Vi era un via vai di addetti al lavoro che sistemavano, luci, impianti o che parlavano tra di loro.
<< Tu, ragazzina >>.
Mi voltai e vidi un ragazzo con gli occhiali e dall’aria intellettuale, a prima vista ventenne, che mi guardava in modo seccato.
<<il locale apre la sera e come vedi siamo tutti molto impegnati >>.
<<n-no. In realtà io sarei venuta per il colloquio di lavoro..>>.
Si aggiustò gli occhiali e inarcò un sopracciglio.
<< Allora tu dovresti essere..>> lesse su dei fogli che aveva in mano << Kimberly Walker. Esatto? >> mi chiese poi con, espressione indagatrice.
<< Ehm...sì>> dissi io. << Ehm…si sono un po’ in ritardo ma ho av…>>
<<esatto: in ritardo. E questo, signorina Walker, non credo sia un buon inizio. Quindi non ci faccia perdere altro tempo e torni a casa..>> Disse voltandomi le spalle. Questo tipo mi stava diventando realmente antipatico, benché sapessi di essere in torto. Ma era più forte di me.
<< Quanti anni credi di avere?Andiamo!. Parli come un vecchio, quando scommetto che sarai più grande di me solo di qualche anno, no?! Sono solo 10 minuti di ritardo! >>
Il ragazzo irritante, alle mie parole ebbe un’espressione tra il sorpreso e l’offeso.
<< 20 per la precisione. Inoltre com..>>
<< Su, Jhonny! Ammetti che la ragazza ha carattere e soprattutto ragione >>. Parlò un’altra voce maschile che arrivava alle mie spalle seguita da risate divertite >>. Ciò infastidì maggiormente il tipo irritante. Appena giunse al mio fianco, osservai il neo-partecipante alla conversazione che mi sorrise con aria fugace e anch’ io senza volerlo, accennai un sorriso.
<< Ma stai zitto, Erik! Non devi andare a strimpellare chissà quale strumento per le strade? >> Disse colui che si chiamava Jhonny provocando il neo-arrivato. << E mi chiamo Jhonatan, non Jhonny!>> Errore si chiamava Jhonatan.
Il ragazzo vicino a me sorrise ancora, poi mi guardò. << Allora, Kimberly…giusto? >> Io annuì. << Seguimi. Facciamo quel colloquio >> continuò gentilmente. Jhonatan fece un verso di sdegno e se ne andò borbottando qualcosa.
<< Non farci caso. E’ sempre così. Ha 24 anni e si crede chissà chi.>> mi spiegò mentre mi guidava nei retri del locale per poi salire una scala che portava agli uffici superiori.
<< Da quanto tempo lo conosci? Anche tu lavori qui? >> chiesi io tanto per fare un po’ di conversazione.
<< Direi che conosco Jhonny da una vita, considerando che è mio fratello >> rise, ancora divertito. << Il posto è di mio nonno e io sono solo di passaggio. A volte >>
<< Ah >>. Lui e il fratello erano totalmente diversi, per quanto potevo notare.
<<comunquesia, il mio nome è Erik Sheen. Lì dentro c’è mio zio, il responsabile del locale >> disse indicandomi la porta davanti a noi. Io bussai e quando percepii un “prego, avanti” aprii la porta. Erik rimase fuori e dopo un suo “in bocca al lupo” incominciai il colloquio.


Una volta fuori dalla stanza scesi le scale, percorsi il lungo corridoio del retro e mi diressi verso l’uscita.
<< Allora, com’è andata?>> chiese Erik alle mie spalle poco prima che uscissi dal Red Apple.
<< Torno il fine settimana >> risposi io dirigendo lo sguardo verso di lui e sorridendogli.
<< Grazie>> aggiunsi inseguito
<< Congratulazioni, Kim>> Gli piacciono proprio i nomignoli eh? Erik mi sorrise e tra versi di disapprovazione - credo di Jhonatan – e risatine varie, camminai per le strade della grande mela consapevole di aver trovato un lavoro. Mica male.
Erano circa le 10 e 30 di mattina e, non avendo nulla da fare, tornai all’appartamento. La giornata si prospettava, molto, ma molto noiosa e il lavoro l’avrei iniziato solo venerdì. Entrai in camera mia per posare la giacca, ma rimasi per un attimo disorientata alla vista del mio portatile acceso sul letto. Non ricordavo di averlo lasciato lì e mia zia lavorava. Dubitavo che fosse tornata e avesse usato il mio computer. Che nervi! Non sopportavo quando venivano toccate le mie cose e avrei risolto la questione quando Elisabeth fosse tornata. Se non era stata lei, era la domestica, benché sarebbe dovuta arrivare due ore dopo. Sospirai. Chiusi il computer senza nemmeno guardare la pagine web sul quale era connesso e andai nel salotto per vedermi un film. Mi attraversò un brivido simile a quello della sera precedente nel passare davanti la stanza che io stessa avevo chiuso ed evitavo. Fui per qualche secondo tentata di entrarci, ma mi fermai e corsi via, come se avessi sentito qualcosa che mi chiamava. Qualcosa che voleva trascinarmi nelle profondità delle tenebre. Qualcosa che il mio istinto avrebbe dovuto evitare.

Il venerdì sera il Red Apple era stracolmo di persone e scoprii come quel posto poco in vista della 42° strada di Manhattan era in verità uno dei locali più in voga.
Appena arrivai sul posto, Jonathan mi passò seccamente la divisa da lavoro.
<< Vai là dietro. >> indicando il bancone delle bevande. << Mi hanno riferito che sai già come muoverti, per cui non spreco fiato, ragazzina. >> aggiunse per poi allontanarsi con l’aria schifata.
<<grazie eh! >> risposi io sarcasticamente ad alta voce.
La divisa era abbastanza semplice: un pantalone nero, una maglietta con su scritto il nome del locale e un berrettino. Ma siccome non ero solita indossare pantaloni chiesi al direttore Sheen di poterli sostituire con la mia minigonna nera coordinata con reggicalze e i soliti anfibi. Per fortuna non fece storie e me lo consentì. Dopotutto sarei comunque rimasta con quella specie di maglia e cappello brillantinato. Non era il massimo , ma il lavoro era lavoro e non era niente male.
Dietro al bancone, nonostante fossi costantemente indaffarata a preparare coctail, avevo la visuale di tutto il pub e potevo godermi la musica dal vivo a opera di molte rock band emergenti. Notai anche che il posto era frequentato per di più da “alternativi”, evitando l’assordante e monotona musica da discoteca.
Avevo anche fatto amicizia con due mie colleghe, July e Meredit: due studentesse della columbius e con Susan una ragazza carina, simpatica e ammirevole: lavorava per pubblicare il suo primo romanzo a sue spese senza coinvolgere una casa editrice. Quando le chiesi il perché in una delle nostre pause , mi rispose che così era più facile farsi notare. Nonostante i mie dubbi, la sua era pura determinazione e aveva tutto il mio rispetto.
<< Hey kim! >> sentii tra la folla assetata. Capii subito di chi fosse opera quel soprannome e volsi l’attenzione verso Erik Sheen seduto su uno sgabello dall’altra parte del bancone.
<< Allora, com’ è il primo giorno? >> chiese lui.
<< Direi fantastico. Mi trovo abbastanza a mio agio>> risposi mentre preparavo un Mojito.
<< Sei una bevitrice esperta, oppure hai fatto i compiti e ti sei memorizzata tutti gli ingredienti? >> chiese ancora Erik rimasto sorpreso dalla tanta facilità con cui preparavo i coctail.
Io scoppiai in una risata silenziosa, prestando attenzione alle ordinazioni. << Nella mia città lavoravo come barista da qualche anno >>
<< Ecco spiegato la tua bravura e il perché lo zio ti abbia dato facilmente il posto >> esclamò con tono deluso.
<<cosa ti aspettavi? Un prodigio della bari… ? >>
<< Si, qualcosa di simile. Beh pazienza >> rise sottovoce. << Quindi non sei di New York ? >> continuò curioso.
<< Sono nata nell’ohahyo >>
<<bel posto! >>
<< Insomma..>> Speravo fosse sarcastico.
Per qualche secondo Erik non disse più nulla e si rigirava un bicchiere di Vodka tra le mani. Per la prima volta l’osservai bene. Era un bel ragazzo: bei lineamenti, capelli castani di media lunghezza per un ragazzo e ben sistemati, occhi tendenti al verde e buon gusto per il vestire. Se non altro quell’espressione pensierosa gli donava poco.
<< Qualche problema ? >> chiesi io cauta.
Fece un grande sospiro e poi parlò << Beh, io e il mio gruppo dovevamo suonare >> disse volgendosi verso il palco.
<< figo suoni! >>
<< Si, sono il chitarrista e raramente il vocalist>>
<< E beh, perché non suonate?>>
<< La nostra cantante principale ha deciso di lasciare il gruppo 10 minuti fa >>
<< Ah. Capisco. Purtroppo i rapporti in un gruppo sono complicanti se non si è ben assortiti. Anc io cantavo in una band e so perf..>>
<< Tu CANTI?!>> mi bloccò di colpo lui , come se nel suo sguardo si fosse illuminato qualcosa.
<< C-cantavo..>> non capivo tutta la sua esaltazione.
<< Che genere? >>
<< Un po’ tutti i generi del Rock….>> Incominciavo a temere qualcosa.
<< Perfetto!!!!!Kim ci hai salvato!!! >> Esclamò Erik alzandosi di botto e posando il bicchiere sul balcone.
<< C-cosa?Aspetta Erik! IO cosa? >>
<<aspettami qui. Non ti muovere >>.
<<beh, mi sembra ovvio: sto lavorando! >> dissi io ancora più confusa di prima, ma lui si era già dileguato tra quel mare di persone.
Ero talmente distratta che per sbaglio feci cadere un bicchiere pieno di ghiaccio sul pavimento. “Accidenti”, esclamai tra me e me evitando di attirare troppo l’attenzione. Mi piegai cauta a raccogliere i pezzi di vetro. Fortuna che le mie colleghe erano comprensibili. Non avrei di certo fatto una bella figura il primo giorno e sono sicura che quel simpaticone di Jonathan me l’avrebbe fatto notare.
<< Kim, dove sei? >> chiamò Erik dopo un po’.
<< Shhhhhh >>gli feci segno. << Sono qui giù, abbassa la voce!>> Avevo appena finito di raccogliere tutti i cocci di vetro.
<<cosa ci fai lì sotto? >> chiese lui stranito.
<< Riparando al casino che mi hai fatto fare? >> risposi con tono seccato.
<< Stai più attenta, no? Comunque. Alzati che ti presento a delle persone >>.
Appena ebbi finito, mi accorsi che dietro Erik c’erano altri 3 ragazzi, tra qui una ragazza minuta dai capelli corti e rossi.
<< Avevi ragione, può andare >> disse il ragazzo moro alla destra di Erik.
Tutti mi scrutarono interessati.
<< Ma, sei sicuro che sa cantare? >> chiese la ragazza rossa.
<< Ha detto che aveva un gruppo, vero Kim? >> mi chiese conferma Erik.
A questo punto non sapevo cosa pensare.
<< Beh, non abbiamo tempo. La metteremo alla prova sul palco>> disse l’altro ragazzo biondo alla sinistra di Erik.
<< Sul palco?!! Aspettate un attimo! Di cosa state parlando?! >> Urlai io. I 4 risero.
<< Canterai con noi. Sei capitata al momento giusto >> rispose sicuro Erik.
<< M-ma, non posso!!! Non so nemmeno cosa suonate e sto lavorando! >>
<< Di quello non preoccuparti, kim. Ho avvertito mio zio e a lui va bene. Poi , li conosci gli Skillet ? >>
<< Si, sono uno dei miei gruppi preferiti, ma non ve…>>
<< Allora è fatta. Noi soniamo delle nostre canzoni, ma una cover ci va bene. Se sai la canzone Awake and Alive , possiamo andare benissimo.
Mio Dio che assurdità! Io sapevo quella canzone, ma non l’avevo mai provata. Possibile che dovevo interare questa pazzia?
<< Okkey, lo faccio. >> risposi insanamente io.
Vidi i membri del gruppo che si scambiavano delle occhiatine compiaciute.
<< Quando s’inizia ? >> Almeno avrei avuto il tempo di prepararmi il bagno.
<< MMM..>>
“ E ora seguiamo con i “White Pains”
<< Ora >> continuò divertità la ragazza rossa. Oh, cavolo.



Da sopra il palco il locale sembrava molto più grande e decine di volti aspettavano che la musica iniziasse. Non conoscendo nessuno dei componenti del gruppo, ero a disagio ed ero anche infastidita per indossare quella maglia insignificante e quel berretto orrendo. Per fortuna avevo la mia gonna che compensava. Non sapevo se sarei riuscita a iniziare bene, ma non appena partì la musica e Erik incominciò la canzone fui pervasa dall’adrenalina e scattai. Nell’intonare le parole ricordai: Cantare era una delle cose più belle al mondo. In quei pochi minuti potevo urlare al mondo, potevo abbandonarmi. In quei pochi minuti ero me stessa. Chissà perché avevo smesso. Non lo ricordavo nemmeno più, ma in quel momento avrei voluto cantare in eterno. Senza che me ne accorgessi la canzone era finita e ogni persona applaudiva. Guardai in volto al resto del gruppo che aveva un’aria compiaciuta. Ero un buon segno. Probabilmente non sono andata male.
Una volta scesi dal palco Erik si avvicinò con gli occhi che gli brillavano dalla gioia.
<< Fantastica! Benvenuta ne gruppo , kim. >> esclamò.
<< Ah, quindi ora faccio parte del gruppo? >> chiesi io perplessa.
<< Con quel talento, non posso di certo farti scappare, mia cara Kim >>
<< E’ che vedi, mio caro Erik. Stai decidendo tutto per me >> gli risposi ridendo.
<< Cosa ci vuoi fare, è fatto così >> esclamò la ragazza rossa. << Io sono Lois, la bassista come hai visto e loro due sono: David, il secondo Chitarrista e Steve, il batterista. >> fece indicando i ragazzi. Loro mi fecero segno con la mano e io risposi.
<< Ragazzina, mi fa piacere che ti sei divertita, ma ti ricordo che hai un lavoro. >> s’immischiò Jonathan trascinandomi via dai ragazzi che scoppiarono a ridere. Tornai tranquillamente a lavorare e i White Pains restarono tutta la serata al bancone portando un non so che di allegria.
Tra una risata e l’altra giunse l’ora di chiusura. Si erano fatte le 3 di mattina e dopo aver salutato le mie colleghe feci per andarmene. Benchè fosse così tardi la città era ancora movimentata e da ogni parte si udivano musiche da discoteca. C’erano ancora tante auto in circolazione. Ma si era normalissimo nella grande mela e nonostante ciò mi sorprendevo sempre. A pochi metri dal locale notai che qualcuno si avvicinò a me con una gip Nera.
<< Kim, torni a piedi a casa? >> sentii da dentro l’auto. Guardai dentro al finestrino che si stava aprendo. Come immaginavo.


 
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